un mostro senza testa.
La socialdemocrazia è
un gallo senza cresta.
Ma che nebbia, ma che confusione
che vento di tempesta.
La socialdemocrazia è
quel nano che ti arresta.”
Claudio Lolli, La socialdemocrazia
Negli ultimi anni assistiamo ad una sorta di politica vintage, un po’ come le foto dei social coi filtri Ektarchrome o Velvia per farci sembrare un po’ analogici, si tratta vieppiù di una rispolverata di rivendicazioni socialdemocratiche: maggiore intervento dello stato sul piano sociale per compensare gli eccessi del capitalismo. La novità, se così vogliamo chiamarla, è che a sostenere questa politica vintage siano aggregati che si definiscono o quantomeno si ritengono parte di una sinistra estrema e radicale se non addirittura rivoluzionaria.
Ce n’è per tutti i gusti. Dal neo-keynesismo di stampo Syriza (la coalizione della sinistra radicale greca) al più social-nordico welfarismo di Linke che aggiunge un po’ di pepe realista tedesco al programma o ancora una sorta di “grillismo” di sinistra in salsa spagnola con il nuovo “catalogo” popolare di Podemos.[1]
Anche in Italia, dopo tutti i fallimenti della cosiddetta sinistra radicale, che era partita dal 8% [2] del sub-comandante Bertinotti all’indomani della scissione col PDS per arrivare a poco più del 2%[3] con il più modesto e sobrio Ferrero passando per Arcobaleni e Rivoluzioni Civili, siamo giunti forse ad una possibile risalita nello scenario elettorale grazie all’operazione PaP, o PalP o PotaPop, insomma con Potere al Popolo.
Nato dal fallimento del Brancaccio dove si cercavano ammucchiate tra sinistre piddine fuoriuscite e sinistre extra parlamentari varie, un centro sociale napoletano, l’ex OPG “Je so pazzo”, si prende il teatro luogo del tentativo abortito e lancia un appello, più propriamente una sfida, alla costruzione di una “nuova” alleanza dal basso per riportare a livello nazionale le tante lotte, vertenze e battaglie che molte realtà si impegnano a portare avanti sul territorio. In parole povere a ridare rappresentanza a giovani, precari, disoccupati e lavoratori.
A questo appello rispondono dapprima pezzi di movimento e coordinamenti già esistenti (settori legati alle vertenze antisfratti così come Eurostop, aggregato sovranista e anti UE) e pezzi del sindacalismo di base legati a Cobas e Usb (e il solito prezzemolo Cremaschi fra tutti) e poi a capofitto si getta Rifondazione Comunista che, grazie alle strutture territoriali, garantirà la raccolta delle firme necessarie a presentarsi alla competizione elettorale. Si tratta in gran parte di settori di chiara matrice social-comunista[4] contermini ad aree dell’antimperialismo nostrano che oscilla tra antiamericanismo e rossobrunismo.
Tra i riferimenti più riconoscibili Potere al Popolo cita il Partito Laburista di Jeremy Corbyn, la France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon e gli spagnoli di Podemos, al buon Tsipras pare preferiscano non accomunarsi troppo anche se, paradossalmente, sarebbe invero l’accostamento più realistico per aggregazione e affinità del programma a suo tempo presentato. Sappiamo però la fine ingloriosa consumatasi nel giro di pochi mesi dall’accordo con la cattivissima UE, la co-governance con ministri nazionalisti e anti-migranti e gli “scioperi contro” di pensionati, studenti e lavoratori che si susseguono ormai da due anni a questa parte. Insomma non esattamente delle “buone referenze”.
La rappresentanza, ancora lei
“il ministro dei temporali
in un tripudio di tromboni
auspicava democrazia
con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni”
Fabrizio De Andrè, La domenica delle Salme
Un’operazione, seppur non così articolata, di istituzionalizzazione di pezzi di movimento e in particolare legati alle occupazione ai centri sociali autogestiti è avvenuta nei primi anni ’90 del secolo scorso. Chi ha vissuto in prima persona quel periodo ricorda la sciagura dell’appello alla loro “legalizzazione” che portò infine alla spaccatura tra i cosiddetti Centri Sociali del Nordest, con la “Carta di Milano” e il resto delle occupazioni: l’area dell’autonomia si spaccò in due, quelli che dopo diventeranno famosi come “disobbedienti” che volevano un riconoscimento istituzionale e l’autonomia di classe che rimase esterna così come l’area libertaria e anarchica.
Il seguito di quelle scelte furono poi l’entrismo nei partiti di sinistra (in Particolare Verdi e Rifondazione ma anche in Civiche) di diversi leader o referenti di questi centri sociali, la ricerca di una rappresentanza e di legittimazione che portasse meno rischi di sgomberi da una parte e un maggior consenso sul piano egemonico avvieranno una stagione di relativa espansione che culminò con Genova 2001[5] per poi naufragare in continui fallimenti sia elettorali e sia di consenso.
Sul piano concreto va ricordato che quella scelta di legalizzazione/entrismo istituzionale comportò di fatto una divisione in “buoni” (quelli che volevano collaborare con le istituzioni) e “cattivi” (quelli che non riconoscevano lo stato nelle sue articolazioni come mediatore dei propri interessi) con un incremento di sgomberi e una successiva criminalizzazione dei luoghi di socialità alternativa e di agire sovversivo che è proseguita in modo costante fino ai giorni nostri.
Se paragoniamo la vivacità e la quantità di quelle esperienze, seppur diversificate e contraddittorie, del tempo con quelle rimaste apprendiamo facilmente la costante perdita di autonomia, di parcellizzazione di queste esperienze fino al punto di una loro scomparsa in molte regioni e quartieri del paese.
Certo, nessuno può imputare a quel dissidio l’unica causa di questa involuzione, sarebbe un’analisi tanto ardita quanto inproponibile. Il processo di globalizzazione finanziaria, di riaffermazione di politiche neoliberiste e quindi il riemergere di politiche sempre più destrorse e conservative sono stati il contesto generale in cui anche queste minoritarie ma interessanti realtà esistevano e lottavano tentantando una radicalizzazione dei settori più giovanili e conflittuali della sinistra storica o meglio di quanto ancora ne rimaneva.
Consideriamo che questo processo avveniva in un costante depauperamento di quello che rimaneva non solo della sinistra partitica (PCI-PDS-DS), con quello che era uno dei più forti partiti comunisti d’Europa e che ha sempre attuato politiche socialdemocratiche, ma anche sindacale con una CGIL ormai votata solo alla concertazione e all’assestarsi come sindacato di servizi.
Questo ripasso di storia minore serviva per comprendere come già in tempi in cui le lotte territoriali e le realtà che si collocavano nell’area delle occupazioni, dell’autogestione e della vertenzialità più conflittuale, avevano certamente molta più linfa in termini sia numerici sia teorici, un processo che mirava a dargli rappresentanza istituzionale ed elettorale non solo non fu efficace ma semmai contribuì a indebolirli.
Figuriamoci quanto possa essere “rappresentativo” e significante un centro sociale e qualche pezzo qua e là di movimento già fagocitato da Rifondazione da una parte e da un De Magistris pronto a salire sul carro se i risultati saranno apprezzabili dall’altro.
Il problema della “rappresentanza” dunque rimane oggi al più incompreso, non tanto nell’ennesimo dibattito asfittico sui suoi sostenitori o detrattori, quanto nell’essenza del sua utilità.
In un regime democratico a capitalismo avanzato non vi può essere, fisiologicamente, alcuno spazio per una rappresentanza di settori che agiscono la conflittualità e mirano alla sovversione dello stato presente.
Quella rappresentanza, l’unica ammissibile in un consesso parlamentare, si può declinare solo sul piano di riaffermazione dello status quo.
Un programma, per quanto condiviso e migliore sul piano delle esigenze delle classi popolari, non si darà sul piano di un consenso né elettorale né di mera rappresentanza di istanze. Semmai sarà quando sussiste nei rapporti di forza reali, cioè nella società (nello scontro tra capitale/lavoro, nello scontro tra sostenibilità ecologica/profitto energivoro ecc,) un aumento netto di lotte, di rivendicazioni, a carattere di massa che la rappresentanza spunterà in partiti esistenti o in nuovi raggruppamenti per mediare con stato e capitale un processo di arresto di queste lotte, concedendo temporaneamente pezzi di welfare e ossigeno alle classi subalterne.
Questo è il massimo che può essere concesso e che passa sotto il nome di socialdemocrazia. La “rappresentanza” in questi termini è, in definitiva, una forma di resa a patti. Oggi come oggi non siamo nella condizione minima necessaria per trattare neppure le briciole, figuriamoci quello che potremmo ricavarci.
Al tavolo dei “grandi”, tradire o amministrare la miseria
“Non vedo nulla di definitivo nell’arte del governo temporale.
Ma violenza, la doppiezza e la frequente malversazione.
Hanno una sola regola: prendere il potere e tenerselo.”
Thomas Stearns Eliot, Assassinio nella cattedrale
D’altra parte è bene ricordare che in Italia, uscendo dall’arcipelago extra-parlamentare, per dare invece risalto alla forma tradizionale di un partito considerato di sinistra e di classe, quello che rimaneva del PCI dopo la diaspora di Occhetto ha dei precisi connotati sia in termini di consenso che di risultati.
Per almeno un decennio e più Rifondazione e il PdCI cercarono di barattare un consenso elettorale che, se sommato, era più che dignitoso tanto da costringere sul piano nazionale un’alleanza col centrosinistra di Prodi, D’Alema e Veltroni per battere il super nemico Berlusconi a sua volta alleato con Bossi e Fini. Si tratta di un ventennio piuttosto esaustivo sul piano delle possibilità concrete di rappresentanza e ricadute su degli obiettivi condivisibili sul piano rivendicativo: miglioramento oggettivo delle condizioni dei lavoratori, dei loro diritti e delle garanzie, blocco delle privatizzazioni dei servizi pubblici e re-investimento su sanità e scuola, blocco e ostracismo alle basi militari, alle missioni di guerra e all’export di armi e blocco delle grandi opere e delle devastazioni ambientali.
Nulla di particolarmente rilevante e “rivoluzionario” ma certamente un argine e un tentativo di invertire il vento neoliberista e repressivo, un chiarissimo esempio di tenuta social-democratica. Bene, quanto questa compagine governativa abbia portato a casa è cosa nota ma è bene riassumerlo.
Un blocco “rappresentativo” che allora poteva contare su percentuali triple a quelle necessarie oggi solo per poter entrare in parlamento (ricordiamo che lo sbarramento è del 3%) non solo non ha portato a casa nulla ma ha acconsentito il via libera alla precarietà del mondo del lavoro votando compattamente[6] il Pacchetto Treu (su 34 deputati di Prc, tolti cinque parlamentari in missione e 3 assenti, i ventisei presenti votarono a favore), l’apertura dei veri e propri lager moderni quali i CPT (Centri di permanenza Temporanea) della Turco-Napolitano poi denominati CIE (Centri di identificazione ed espulsione) dalla legge Bossi Fini (L 189/2002), e infine rinominati C.P.R. (Centri di Permanenza per i Rimpatri) dalla recente legge Minniti-Orlando e infine il rifinanziamento delle missioni in Afghanistan e Iraq. A nulla è valso stare al governo, tantomeno all’opposizione, in parlamento per fermare gli scempi ambientali, il peggioramente pensionistico, l’export di armi e l’apertura di nuove Basi NATO come quella Dal Molin, figuriamoci a bloccare le privatizzazione di parti di servizi pubblici o l’aziendalizzazione della scuola e il finanziamento delle scuole private.
Altro discorso meriterebbero le esperienze nelle amministrative, sia nelle grandi sia nelle piccole città, dove solitamente i margini per avere una maggioranza più significativa sono più ampi, seppur spesso temporalmente effimeri, e dove alcune politiche di ostruzionismo o di inversione su aspetti urbanistici, ambientali e socio-assistenziali è ancora possibile ottenere senza però mai incidere realmente nel tempo e nella sostanza delle vite delle persone.
Si tratta certamente di “amministrare la miseria”, piccoli poteri che sfuggono alla stato, briciole da ricollocare, per lo più biglietti di qualche spettacolo secondario dove però ovunque i costi dei buono-pasto degli asili e delle elementari aumentano sempre, le grandi aziende continuano a inquinare e svicolare da molte prescrizioni mentre occupazione e diritti del mondo lavorativo neppure vengono sfiorati da delibere e leggi comunali o regionali.
Allargamento di vertenze e lotte? Energie per l’autogestione sociale
“Il vero viaggio di scoperta non consiste
nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”
Marcel Proust
Le energie che possiamo spendere negli obiettivi e desideri non sono certo infinite, in ambito politico poi si tratta spesso di ragionare oggettivamente su cambiamenti spesso di medio-lungo termine se non di prendere atto che con ogni probabilità non potrebbe bastare una vita per vivere se non il cambiamento completo neppure il cambiamento in divenire.
Cambiamenti radicali, nel senso di assetti sociali ed economici, nella storia di uomini e donne non avvengono né continuamente né a piacimento (cioè secondo tempi stabiliti), se è vero che certi mutamenti avvengono dopo che sono stati preparati a dovere e altrettanto vero che il “quando” (sempre che succedano) non ci è dato saperlo: a volte tutto succede repentinamente, altre volte in tempi davvero lunghi, in altre occasioni per motivi del tutto diversi se non, paradossalmente, opposti a quelli che ci si aspetterebbe.
L’etoregenesi dei fini è sempre lì, ghignante, a mostrarci quanto sia a volte cinica o beffarda la vita, al netto della serietà e l’affidabilità delle nostre idee, analisi, studi e pretesa scientificità.
Rimane quindi la conta su dove e come investire le energie di ognuno e di quel collettivo di persone a cui decidiamo di legarci per affinità di idee e pratiche e che costituiscono sostanzialmente quella “minoranza agente” che cerca di cambiare lo stato di cose presenti.
Alcuni, pochi ma chiari, sono gli insegnamenti che possiamo ritenere acclarati dalle esperienze di questi ultimi decenni. Ad esempio, battersi in prima persona, impegnarsi direttamente in una causa è nettamente più dispendioso sotto ogni punto di vista (tempo, energie, fatica, rischi e conseguenze) che delegare qualcuno a farlo per te: però le possibilità di incidere nei rapporti di forza in una vertenza non lascia dubbio sull’efficacia di una pur relativa massa critica che incalza padroni o amministrazioni mentre la stessa, agita per conto terzi (ti voto e quando sarai eletto porterai la nostra causa nei consessi decisionali), non solo spesso è sinonimo di insuccesso ma anche quando porta a qualche concessione sicuramente rafforzerà più l’interesse dei pochi eletti e del sistema concertativo e mafioso che regge l’establishment che quello della gran parte.
È, in definitiva, sempre uno scambio a perdere. Dove si può perdere poco a breve termine quando va bene ma dove già a medio termine si perde solitamente tutto, dalle conquiste del movimento operaio e studentesco degli anni ’60/’70 alla perdita di quasi tutti quei diritti son passati solo tre decenni.
I rischi e le conseguenze di lotte agite in prima persona sono direttamente proporzionali alla capacità d’innescare un processo davvero rivoluzionario sul piano sia del metodo sia della comprensione dei rapporti di forza – è una ginnastica non solo di pratiche, non solo di esperienze ma anche di mentalità: gli occhi con cui guardi sono i tuoi, non quelli di un professionista della politica e neppure di un giocoliere dei compromessi.
Al contrario le lotte delegate pur consentendoci di non rischiare molto e di non avere sostanziali ricadute esistenziali neppure ci consentiranno l’ottenimento di quello di cui abbiamo bisogno: non è un caso che questo sistema “rappresentativo” è in un costante inesorabile declino, dove la disaffezione sta raggiungendo livelli importanti così come diffusa è la percezione dell’irrilevanza di chi si candida a questa funzione di mediazione.
Ecco perché 100 voti non valgono un militante, ecco perché 10 attivisti fanno per la causa più di quanto possano 1000 tessere di partito.
L’obiezione di molti, soprattutto tra gli orfani di partito, che hanno una sorta di riflesso pavloviano ad ogni tornata elettorale, è quella di sostenere che sia possibile l’una e l’altra opzione: da una parte portare avanti le vertenze e le lotte sul territorio adoperandosi nel conflitto e dall’altra delegare rappresentanti istituzionali.
Un’apparente ragionevolezza, insistono, indica che avere un appiglio, o un approdo, nei consessi di potere ci garantirebbe maggiori margini di successo: insomma è una questione di tattica. Senza ripetersi nel confutare questa tesi con quanto esposto nei paragrafi precedenti (si veda l’infausta débâcle recente delle sinistre radicali sia in Italia sia in Grecia, che poi è solo il ripetersi in farsa delle tragedie delle socialdemocrazie storiche novecentesche) ci sono un altro paio di evidenze su cui ragionare.
La prima riguarda l’attitudine che non è interscambiabile tra l’una e l’altra ipotesi, cioè tra quella di azione diretta e quella delegante. Abituarsi a delegare comporta un’attitudine sostanzialmente passiva se non servile, non solo ci si abitua a non rischiare mai nulla ma ci si abitua a considerare questa ipotesi l’unica possibile, reiterando da una parte deresponsabilizzazione e dall’altra rassegnazione.
Tutti oggi ne abbiamo conferma: in ogni ambito delle nostre vite lamentiamo una passività e rassegnazione assai diffuse e radicate, soltanto malafede o ignoranza possono non far sostenere che queste attitudini non siano le conseguenze di scelte e storie ben precise.
C’è poi un motivo semplice ma del tutto comprensibile riguardo ad un certo opportunismo di massa: se chiedi il voto ad una lista, ad un partito, ad una coalizione sostenendo che questa sia la scelta migliore e che consentirà di ottenere risultati rispetto agli interessi degli sfruttati, dei subordinati insomma dei senza potere, questi preferiranno certamente questa scelta ad una che comporta un rischio in prima persona, uno spendersi direttamente con tutto quello che già abbiamo detto.
Perché mai non fare l’una è l’altra cosa? Perché delegare un governo cittadino a decidere per le nostre strade, il territorio, i servizi ecc. se poi dobbiamo anche spenderci in riunioni, costituire assemblee, provare a forzare scontrandosi, spesso studiando e informandoci, se non con tutto almeno parte di quel governo cittadino? La vita è una, il tempo rubato dai padroni per ottenere un misero salario è già troppo, la “gente” sarà spesso molte cose negative ma è meno scema di quanto immaginano certi strateghi.
Se anche non trovassimo riscontro, sintesi, insomma accordo sulla tattica e dovessimo concentrarci sul fine, sarebbe davvero poi lo stesso? Queste sinistre che spesso sostengono un imperialismo contro un altro (giustificando se non esaltando gentaglia quali Assad, Ahmadinejad, Maduro ecc.), che ancora sostengono l’utilità degli organi di repressione per governare un paese (esercito, polizia ecc.), che spesso inneggiano a legalità e magistratura come strumenti democratici e che ancora chiamano “errori” veri e propri eccidi di dissidenti nei paesi a capitalismo di stato, avrebbero poi la nostra stessa visione sociale?
Non c’è altra possibilità che decidere come investire le energie che abbiamo, insomma Tertium non Datur: o ci poniamo in un’ottica rivoluzionaria e cioè proviamo a investire tutte le energie nelle lotte immediate e non mediate e nella costruzione di una teoria e una prassi autogestionaria che ci porti ad una società comunista, federalista ed ecologista sociale o continuiamo a investire energie nell’ennesima fallimentare sceneggiatura social-democratica fatta di elezioni e propaganda fungendo da stampella ad un sistema capitalista che ci sta portando verso l’ennesima guerra globale e l’esaurimento delle risorse naturali di questo pianeta.
An Arres
NOTE
[1] http://formiche.net/2016/06/09/podemos-programma-catalogo-ikea/
[2] Elezioni del 1995.
[3] Elezioni del 2013.
[4] https://www.lacittafutura.it/editoriali/intervista-al-collettivo-politico-dell-ex-opg-je-so-pazzo-di-napoli
[5] http://espresso.repubblica.it/foto/2008/11/17/galleria/2001-le-copertine-de-l-espresso-1.60829#1
[6] http://banchedati.camera.it/Votazioni/leg13/CercaVotazioni.Asp?source=&AnnoLegge=1997&TipoLegge=TUTTE%20LE%20LEGGI&NumeroLegge=196&TestoContenuto=&TipoRicerca=
Qui la mozione astensionista della FAI.
http://www.umanitanova.org/2018/02/21/voto-a-perdere/